Andiamo

A proposito del punto g e simili figure

Mi permetto di riportare questa breve recensione "catturata" sul web in maniera tale da concettulizzare in maniera unitaria il genus femminile, cordialmente: di Federico Andahazi

Traduzione di Alessandra Riccio

Nell'Italia del '500, un medico innamorato cerca la sede del piacere femminile. Primo romanzo di un giovane psicanalista argentino, arriva anche da noi, edito da Frassinelli, il libro che ha conquistato il mondo. E che diventerà un film con Antonio Banderas.

Il fattore Massimo Troglio era il fattore di puttane più prestigioso d'Europa. È vero che comprava, vendeva e perfino rubava come qualsiasi trafficante. Ma questo era solo il principio di un lungo e laborioso lavoro, il primo anello di un costosissimo e proporzionalmente redditizio mestiere. Massimo Troglio era, eminentemente, un pedagogo, un miscuglio del più miserabile pedofilo e del più sublime maestro. Il Fattore - come lo chiamava qualcuno - era il fondatore della più prestigiosa Scuola di Puttane; padre, per così dire, della razza di puttane più sublime di Venezia, addirittura di Lena Grifa e di tutte le puttane che adornarono la corte dei Medici, delle puttane che imprigionarono il cuore di monarchi e arcivescovi. Di tutte le puttane in onore delle quali furono innalzati i palazzi più fastosi di Venezia.

Nemmeno un'imperatrice riceveva l'educazione della meno brillante delle puttane di Massimo Troglio. Le più giovani, come Ninna Sofia, erano oggetto delle cure più attente. Le madonne- le puttane più anziane - si incaricavano di far da tutrici a quelle in più tenera età. Si preoccupavano di far loro il bagno con latte di lupa, poiché l'acqua era stata proibita dopo le grandi epidemie e, secondo gli insegnamenti di Massimo Troglio, il latte di lupa affrettava la crescita ed evitava la decrepitezza; sfregavano la loro pelle con saliva di giumenta per impedire che le carni crescessero molli e, un giorno alla settimana, le facevano dormire in una stalla insieme ai maiali affinché apprendessero a sopportare i fetori più ripugnanti e le compagnie più sgradevoli. Massimo Troglio fu l'autore di Scuola di Puttane, una serie di 715 aforismi divisi in sette libri e ispirati senza dubbio agli Aforismi di Ippocrate. Fra le altre corse, sosteneva che le puttane migliori e più leali erano quelle nate da: 1. falegname e mungitrice; 2. cacciatore e donna mongola, possibilmente cinese; 3. marinaio e ricamatrice. Affermava poi che "una donna può concepire un figlio addirittura da sette uomini i cui succhi seminali si uniscono nell'utero e si combinano gli uni con gli altri a seconda della forza seminale di ciascuno dei padri". "Quella del Fattore di Puttane è l'arte più sublime; più di quella di creatore di profumi e di quella dell'alchimista; come questi, uniamo le essenze più nobili con quelle più vili, quelle più antagoniste e quelle più simpatiche".

Massimo Troglio si mostrava particolarmente interessato a quella piccola che il cielo gli aveva inviato. Affinché non vi fosse alcun dubbio che era una delle sue pupille, le tolse il braccialetto e gliene fece fare un altro - di oro e rubini - dove spiccava il suo nuovo e definitivo nome: Monna Sofia. Poche volte aveva visto una bambina con un carattere simile, con tanta e così precoce intelligenza e, soprattutto, dotata di quella singolare e straordinaria bellezza. Monna Sofia era la sintesi di tutte le puttane messa in un corpo di bambina, una specie di estratto di puttana allo stato puro. Eppure, Monna Sofia non era esente dai due grandi e, di certo, misteriosi problemi contro cui deve combattere un maestro di puttane: l'amore e il piacere.

Massimo Troglio non aveva mai visto un odio così incommensurabile come quello che gli dimostrava la piccola, e non perché lo preoccupasse essere oggetto di un tale sentimento, ma perché, a quanto gli insegnava l'esperienza - e così recitata l'aforisma IX - "quanto più una donna è proclive all'odio, tanto più è proclive all'amore". La seconda preoccupazione non era, in se stessa, l'assenza di qualsiasi manifestazione di dolore, ma il sospetto che dietro la maschera dell'insensibilità, quanto più intenso era il dolore per Monna Sofia, tanto più intenso era il piacere che le provocava. E, infine, i primi cicli di formazione di una puttana non avevano altro scopo mediato che l'interdizione dell'amore e del piacere. L'investimento era troppo grande e richiedeva troppa pazienza per permettere che - come era successo più di una volta - un bel giorno l'ingrata se ne andasse, innamorata cotta, dietro un qualsiasi uomo. Fra questi aforismi, Massimo Troglio scrisse: "Corrompere è più difficile che educare. È più facile rimpiazzare un sistema morale con un altro che spogliare qualcuno della propria morale. L'educazione nella morale favorisce l'educazione delle puttane.

Come il filosofo, il maestro di puttane deve essere veicolo della morale. È più conveniente per il monarca l'esistenza di puttane per denaro che l'esistenza di puttane per piacere". Massimo Troglio basava tutta la sua teoria sui canoni ellenici. Le massime che guidavano la sua penna e, di conseguenza, la sua pratica, erano - è ovvio - quelle della Metafisica di Aristotele. Aristotelica era la sua concezione della donna e dell'uomo e aristotelico, naturalmente, era il suo giudizio sulla procreazione; si abbeverava anche alla fonte aristotelica per spiegare in che modo "l'uomo deve servirsi, per causa naturale, del profitto della donna". Nel capitolo "Sulla mostruosa condizione femminile", diceva: "Come insegna il Maestro Aristotele, lo sperma dell'uomo è l'essenza, la potenzialità essenziale che trasmette la virtualità formale del futuro essere.

L'uomo reca nel suo seme l'alito, la forma, l'identità, cioè la kinesis che fa della cosa una materia viva. L'uomo, in fine, è colui che dà l'anima alla cosa. Il seme ha il movimento che gli imprime il suo progenitore, è l'esecuzione di un'idea che corrisponde alla forma del genitore stesso, senza che ciò implichi la trasmissione di materia da parte dell'uomo. In condizioni ideali, il futuro tenderà all'identità completa del padre. La donna apporta il sostentamento materiale del suo sangue, la corporeità, la carne che invecchia, si corrompe e muore. L'essenza dell'anima è sempre maschile. Come ha insegnato il Maestro, la procreazione di bambine è, in ogni caso, prodotto delle debolezza del progenitore a causa di una malattia, della vecchiaia o della precocità. "La donna fornisce sempre la materia e l'uomo il principio creatore: per noi è questa, in effetti, la funzione propria di ciascuno dei due, e questo significa essere femmina o maschio. È necessario pure che la femmina fornisca un corpo, una determinata quantità di materia, mentre ciò non è necessario per il maschio: non è necessario che gli strumenti esistano nei prodotti che vengono fabbricati e neanche che in essi esista l'agente che li produce".

Quella di Massimo Troglio non è solamente una nozione intorno al concepire, ma anche - e sempre sotto l'egida intellettuale di Aristotele - della genealogia stessa dell'essere vivente: "Il seme è un organo che possiede un movimento in atto". "Il seme non è una parte del feto in formazione, come nessuna particella di sostanza passa dal falegname all'oggetto da lui elaborato per unirsi al legno, così nessuna particella di seme può intervenire nella composizione dell'embrione". Ed esemplifica: "La musica non è lo strumento, né lo strumento è la musica. E tuttavia, la musica è identica all'idea dell'autore". È facile dedurre quale fosse il nodo della teoria di Massimo Troglio: la proprietà, la patria potestà, il diritto al possesso della discendenza da parte dell'autore, cioè il padre. Così come è chiaro che il proposito di Aristotele altro non era che la riaffermazione del Diritto greco. La donna, questa è la teoria, era del tutto residuale e la sua essenza era quel sangue che appare una volta al mese; una massa di liquido crudo, impuro, non elaborato, inerte e amorfo, ma, naturalmente, toccato dall'alito, la kinesis, del suo debole progenitore. Per cui quest'ultima rivelazione aristotelica è quella che gli propone il metodo, il modo di produzione e di appropriazione delle donne. Monna Sofia era la più bella e la più precocemente sviluppata delle discepole di Massimo Troglio. Inoltre dimostrava una prematura predisposizione al mestiere.

Aveva una sensualità poco frequente in una bambina della sua età. Quando compì sei anni, Massimo Troglio decise che ormai poteva cominciare la seconda tappa della sua formazione. Nella Scuola di Puttane le pupille ricevano fin da giovanissime un'educazione religiosa, si insegnava loro la mitologia antica e apprendevano, naturalmente, a leggere e a scrivere, non solo in vernacolo ma addirittura in greco e latino. La Scuola era, fondamentalmente, un'istituzione rinascimentale, altrettanto prestigiosa di qualunque altra delle numerose scuole di pittura della penisola. Infatti riceveva un sussidio dalla municipalità e ciascuna delle pupille aveva il rango di funzionario pubblico. Monna adorava ascoltare le storie che le raccontava Filippa, la sua istitutrice. Ogni volta che sentiva come la balena inghiottiva Giona tutto intero, sgranava gli occhi smisuratamente e ingiungeva a Filippa di omettere le parti superflue del racconto per dirle rapidamente quale era stata la sorte dell'eroe.

Tutto filava liscio fino a quando Filippa cominciava a incolparla. Monna negava decisamente di aver partecipato in qualche modo alla crocefissione di Nostro Signore Gesù Cristo e non riusciva a sopportare l'accusa che Lui fosse morto per causa sua. In fin dei conti, chi era lei? Che importanza poteva avere la sua insignificante esistenza nientemeno che nella sorte del Salvatore? Ugualmente, si dichiarò esente da ogni colpa e complicità nei peccati di Eva, che, d'altra parte, dichiarava di non avere mai visto. Eppure, a denti stretti, finiva con l'assentire chinando la testa senza troppa convinzione, perché era capace di sopportare tutto meno gli acutissimi strilli di Filippa, che le rompevano i timpani. Massimo Troglio - a suo merito, o forse per sua colpa - fece di Monna Sofia la sua opera più sublime. Dieci anni di educazione e di cure avevano dato il loro frutto: era la donna più bella di Venezia. Il Fattore aveva saputo essere paziente; quando la sua pupilla compì tredici anni le annunciò che era arrivato il momento dell'iniziazione. Monna debuttò in società nella festa di presentazione che, tutti gli anni, Massimo Troglio offriva nel suo palazzo. Si trattava di un'emozionante cerimonia in cui ogni diplomata riceveva la nomina di funzionaria pubblica dalle mani di qualche notabile dello Stato della Repubblica. Quando venne annunciata Monna Sofia, sopravvenne un silenzio fatto di venerazione e di stupore. La Venere medicea era una rozza contadina paragonata a quella donna che compariva sulla porte del salone. Da ogni parte d'Europa arrivavano nobili signori fino alla Scuola e pagavano vere e proprie fortune. In meno di sei mesi, Massimo Troglio aveva recuperato fino all'ultimo ducato investito nella sua pupilla. Nel corso del primo anno, il Fattore quintuplicò il totale del suo investimento. Il corpo di Monna Sofia aveva incrementato il patrimonio di Massimo Troglio di... duemila ducati!

Di quando Matteo Colombo conobbe Monna Sofia Durante il suo breve soggiorno a Venezia nell'autunno del 1557, l'anatomista conobbe Monna Sofia. Accadde nel palazzo di un certo duca, in occasione della festa che l'anfitrione si concesse il giorno del proprio onomastico. Monna Sofia era ormai una donna adulta e sperimentata. Aveva quindici anni. Forse a causa della dichiarazione di Leonardo da Vinci sul fatto che non comprendeva come mai gli uomini si vergognassero della propria virilità e "nascondessero il loro sesso invece di adornarlo con grande solennità, come fosse un ministro", forse per questa ragione, quell'anno si era diffusa fra gli uomini la moda di esibire e adornare con gran pompa i genitali. Quasi tutti gli invitati, eccetto i più anziani, esibivano delle calze dai toni chiari che mettevano in mostra le parti intime dei loro proprietari grazie all'uso di nastri che passavano fra la vita e l'inguine, in modo da far risaltare le virilità. Coloro che avevano maggior motivo di essere grati al Creatore accettarono quella moda molto volentieri. Gli altri usavano diversi modi per adattarsi ai tempi senza doversi vergognare. Nella Bottega del Moro si vendevano delle imbottiture che andavano mese sotto le calze e che servivano, giustamente, per prestare grazia a uomini più o meno sgraziati. Fra i molteplici orpelli, dalle piccole pietre che incominciavano il "ministro" fino a decorazioni di perle molto vistose, si usava un nastro a cui erano legate quattro o cinque campanelle che rivelavano lo stato d'animo di "sua signoria". Così le dame potevano accorgersi dell'entusiasmo che suscitavano fra i cavalieri, a seconda dello scampanio dei sonaglietti. Era quella una festa come le altre: prima si ballò la danza del bacio che non aveva altre regole che quella di muoversi a proprio piacimento, con l'unica condizione che, nel formarsi o sciogliersi della coppia, lo si facesse con un bacio.

Matteo Colombo si manteneva lontano dai passi di ballo e, sebbene non fosse un uomo vecchio, vestiva in modo tradizionale, cosa che, fra tanta esibizione di chiappe maschili, gli conferiva un'aria importante. E in verità si vide premiato da più sguardi femminili di coloro che ostentavano i propri maestosi campanili, autentici o posticci. La festa non era ancora giunta a metà, quando comparve Monna Sofia. Non ci fu bisogno di annunciarla. I suoi due schiavi mori la fecero discendere dalla portantina vicino al vano della porta del salone. Se fino a quel momento c'erano tre o quattro donne che accaparravano l'attenzione, la più bella fra loro non poté evitare di sentirsi storpia, zoppa o gobba se paragonata alla nuova arrivata. Monna Sofia aveva una statura augusta. Indossava un vestito la cui gonna si apriva fino all'inizio delle cosce. La seta lasciava trasparire perfettamente tutto il suo corpo.

I seni si agitavano a ogni passo sul bordo della scollatura che lasciava vedere la metà del diametro dei capezzoli. Sulla fronte le pendeva uno smeraldo il cui scopo era quello di sottolineare ancora di più lo splendore dei suoi occhi verdi. Monna Sofia fu ricevuta da un vero e proprio carillon, da un centinaio di virili scampanellate. Matteo Colombo se ne restò in un angolo solitario del salone. Neanche l'anatomista aveva potuto sottrarsi alla bellezza della nuova arrivata. E in effetti osò lasciare a metà il discorso di una dama ipocondriaca che non la finiva di enumerare i suoi malanni e dalla quale non sapeva come liberarsi. Monna Sofia fu ricevuta dall'anfitrione che, immediatamente, la coinvolse nel ballo del bacio. Secondo la regola, il cavaliere doveva invitare la dama con un bacio e, dopo aver eseguito qualche figura, la dama doveva sostituire il suo cavaliere con un altro e così successivamente. Naturalmente era un ballo propizio alla seduzione; le regole erano le seguenti: se una dama non era interessata ad alcun cavaliere, allora la soluzione di compromesso consisteva nell'invitare a ballare un uomo sposato. Se invece la dama sceglieva uno scapolo, le intenzioni risultavano chiare.

Ma esistevano anche delle norme quanto al bacio; se la dama sfiorava appena la guancia del cavaliere, non aveva altro proposito che quello di ballare e di divertirsi un po'; invece un bacio affettuoso indicava intenzioni più o meno formali, per esempio, di matrimonio. Ma se il bacio sfiorava le labbra del cavaliere, i propositi lascivi della dama risultavano chiari; si trattava di un puro e semplice invito al sesso. Monna Lisa ballava una danza che si sarebbe detta orientale: con entrambe le mani si cingeva la vita mentre faceva ondeggiare i fianchi. Tutti aspettavano con curiosa ansietà il momento in cui avrebbe dovuto scegliere un nuovo cavaliere; ragione per cui tutti i giovani si contendevano la prima fila, esibendo, senza risparmiarsi alcuna oscenità, i loro voluminosi animi adorni.

Però Monna Sofia aveva conosciuto in altre circostanze più d'uno di quei cavalieri senza altro ornamento che quello con cui erano venuti al mondo e che ora ostentavano delle inesplicabili virilità. Guardava ognuno di coloro che speravano di essere eletti, si rivolgeva a qualcuno di loro e a quel punto, quando sembrava che si fosse decisa, girava sui tacchi e si avviava verso un altro uomo, a cui, poi, faceva lo stesso sgarbo. Sempre muovendosi al ritmo dei liuti, Monna Sofia si fece largo fra un gruppo di euforici corteggiatori fino a oltrepassarli e, allora, Matteo Colombo riuscì a vedere come i seni di Monna, che tremavano sull'orlo della scollatura, lo indicassero con i loro capezzoli. Monna Sofia camminava decisa verso l'anatomista. In altre circostanze, Matteo Colombo si sarebbe vergognato; invece, ora, mentre vedeva avanzare quella donna che lo guardava come mai prima si era sentito guardare, non poté evitare l'impressione che in quel salone non ci fosse altri che lei. Eppure poteva sentire il chiasso degli altri e della musica dei liuti; poteva perfino vedere la folla degli invitati. Sentiva, esattamente, quello che sente un topolino davanti a un serpente. Non poteva, neanche volendo, guardare altro che non quegli occhi verdi che facevano impallidire lo smeraldo posato fra le sopracciglia. Monna Sofia avvicinò le labbra a quelle dell'anatomista - poteva sentire il suo alito di menta e di acqua di rose - e allora, come una brezza calda, effimera, poté sentire all'angolo delle labbra la breve carezza della lingua di Monna Sofia.

Ballò, sì; non perse la compostezza, no; fu galante. Riuscì perfino a dissimulare il fatto che, da quella volta fino al giorno della sua morte, non avrebbe più potuto fare a meno di quell'alito di menta e acqua di rose, di quella brezza calda ed effimera, del conforto di quegli occhi verdi. Ballò. Nessuno avrebbe detto che, come la vittima di un serpente il cui veleno va invadendo, implacabile, il sangue, quell'uomo austero che ballava si era appena ammalato mortalmente. Ballò. Per sempre, fino al giorno della sua morte, avrebbe ricordato di aver ballato sotto l'incantesimo di quegli occhi maliziosi; fino all'ultimo giorno come si commemora l'anniversario di un martire, avrebbe ricordato che attraversarono corridoi, giardini e gallerie e che, in una recondita alcova del palazzo, con il lontano sussurro dei liuti, poté baciare quei rosei capezzoli, duri come perle ma più fini del petalo di un fiore. Fino al giorno della sua morte avrebbe ricordato, come una ricorrenza lugubre eppure tanto dolce, quella voce di legna crepitante, le stregonerie di quella lingua la cui materia era la stessa del fuoco dell'inferno. Fino all'ultimo giorno avrebbe ricordato che, come colui che ha fatto promessa di digiuno e rinuncia al cibo consentito per prolungare l'ansia di mangiare, così rifiutò il suo corpo e invece, aggiustandosi la veste, le disse: "Voglio farvi il ritratto". E, come il naufrago che confonde le nubi dell'orizzonte con la terraferma, credette di vedere amore in quegli occhi verdi pieni di ciglia ricurve.

Ma non erano che nubi. "Voglio farvi il ritratto", ripeté con l'animo turbato dall'emozione. E credette di vedere emozione negli occhi del serpente. Monna Lisa lo baciò con tenerezza infinita. "Potete venire a trovarmi quando volete", disse e con un sussurro aggiunse: "Venite domani stesso". L'anatomista la vide sistemarsi gli abiti, vide come per l'ultima volta gli offriva i capezzoli duri per farseli baciare e la vide girare sui tacchi e dirigersi verso la porta. Allora udì che gli diceva, prima di perdersi dall'altro lato: "Venite domani, vi aspetto". Ma non erano che nubi. Il giorno seguente, alle cinque in punto della sera, Matteo Colombo salì i sette gradini dell'atrio del bordello del Fauno Rosso. Portava il suo cavalletto da viaggio in spalla, la tela sul petto, la tavolozza sotto il braccio destro, e la sacca con gli oli appesa alla cintura della veste. Arrivava così carico che per poco non travolse l'amministratrice. Quando Matteo Colombo si affacciò al vano della porta, Monna Sofia, coperta da un tulle trasparente, stava finendo di intrecciarsi i capelli davanti allo specchio del suo tavolo da toletta. L'anatomista, che stava ancora in piedi con tutto il suo bagaglio addosso, poté vedere nello specchio quegli stessi occhi nei quali il giorno prima aveva visto l'amore. Ed ora erano lì, solo per lui, per i suoi occhi. E allora si annunciò schiarendosi la voce.

Senza girarsi, senza neanche guardare, Monna Sofia fece un gesto d'invito con la mano. "Vengo a farvi il ritratto". Senza girarsi, senza neanche guardare, Monna Sofia dichiarò: "Ciò che farete durante la visita mi è completamente indifferente", disse, e aggiunse immediatamente: "Se non lo sapete, la tariffa è di dieci ducati". "Vi ricordate di me?" mormorò Matteo Colombo. "Se riuscissi a guardarvi in faccia... " disse al suo anonimo interlocutore la cui faccia era coperta dalla tela che portava. Allora l'anatomista posò le sue carabattole a terra. Monna Sofia lo esaminò dallo specchio. "Non credo di avervi visto prima", titubò e, a scanso di equivoci, gli ricordò di nuovo la tariffa: "Dieci ducati". Matteo Colombo lasciò i dieci ducati sul comodino, srotolò la tela, la mise sul cavalletto, estrasse i colori a olio dal sacchetto che pendeva dalla sua cintura, preparò i pennelli e, senza dire una parola, cominciò il ritratto che avrebbe intitolato Donna innamorata. Ogni giorno, quando gli automi della Torre davano il quinto rintocco, Matteo Colombo saliva i sette gradini che conducevano all'atrio del bordello di calle Bocciari, entrava nell'alcova di Monna, lasciava dieci ducati sul comodino e, mentre sistemava la tela, senza neanche togliersi il mantello, diceva a Monna di amarla e che, anche se lei non ne voleva sapere, lui poteva leggere l'amore nei suoi occhi. Fra una pennellata e l'altra la supplicava di abbandonare quel bordello e di andar via con lui, dall'altra parte del Monte Veldo, a Padova, che se lei voleva così era disposto ad abbandonare la sua cattedra all'università.

E Monna, nuda sul letto, i capezzoli duri come mandorle e lisci come i petali di un fiore, fissava la Torre dell'Orologio che si innalzava dall'altra parte della finestra, aspettando che le campane rintoccassero una buona volta. E quando finalmente lo facevano, lo guardava con gli occhi pieni di malizia: "Il tuo tempo è scaduto", diceva e si dirigeva verso la toletta. E ogni giorno, alle cinque della sera, quando le ombre delle colonne di San Teodoro e quella del leone alato si fondono in un'unica e obliqua frangia che attraversa la piazza San Marco, l'anatomista arrivava al bordello con il suo cavalletto, la sua tela e i suoi colori, lasciava i dieci ducati sul comodino e non si toglieva nemmeno la veste. Mentre mescolava i colori sulla tavolozza, le diceva di amarla, che anche se lei stessa lo ignorava, lui sapeva capire quando l'amore si impossessava di uno sguardo. Le diceva che nemmeno la mano di un dio avrebbe potuto imitare tanta bellezza, che se l'amministratrice non approvava il matrimonio, era disposto a pagare per lei tutto il denaro che possedeva, di lasciare quel postribolo infame e di andarsene insieme a lui nella sua casa natale a Cremona. E Monna Sofia, che sembrava non lo ascoltasse nemmeno, si accarezzava le cosce lisce e sode e tornite come il legno, e aspettava che suonasse il primo dei sei rintocchi che indicava che il tempo del suo cliente era finito. E ogni giorno, alle cinque in punto della sera, quando le acque del canale cominciavano a salire sulle gradinate, Matteo Colombo arrivava al bordello di calle Bocciari, vicino a Santa Trinità e, senza nemmeno togliersi la berretta che gli copriva la nuca, lasciava i dieci ducati sul comodino e, mentre sistemava la tela sul cavalletto, le diceva che l'amava, di fuggire insieme dall'altro lato del Monte Veldo o, se era necessario, dall'altro lato del Mediterraneo.

E Monna, chiusa nel suo cinico mutismo, nel suo silenzio malizioso, si accomodava la treccia oltre la vita, si accarezzava i capezzoli e non si scomodava nemmeno per vedere i progressi del ritratto. Non guardava altro che l'Orologio della Torre, in attesa che, finalmente, rintoccasse per poter pronunciare le uniche parole delle quali sembrava essere capace. "Il tempo è scaduto". E ogni giorno, alle cinque della sera, quando il sole era una tiepida virtualità moltiplicata per cinque sulle cupole della Basilica di San Marco, l'anatomista, carico di sacche, stringhe e umiliazione, lasciava dieci ducati sul comodino e fra l'acre profumo degli oli e del sesso altrui, le diceva che l'amava, che era disposto a disfarsi di tutto quanto possedeva per comprarla, che sarebbero fuggiti dall'altra parte del Mediterraneo o, se era necessario, nelle terre nuove dall'altra parte dell'Atlantico.

E Monna, senza dire una parola, accarezzava il pappagallo che dormicchiava sulla sua spalla, come se in quell'alcova non ci fosse nessun altro, aspettava che gli automi della Torre dell'Orologio si decidessero a muoversi e allora, con gli occhi pieni di una malizia sensuale, diceva: "Il tempo è finito". E durante tutto il suo soggiorno a Venezia, tutti i giorni, alle cinque in punto della sera, l'anatomista arrivava al bordello di calle Bocciari vino a Santa Trinità e le diceva che l'amava. E così fu fino a quando l'anatomista terminò il ritratto e, naturalmente, terminò tutto il suo denaro. Il suo tempo a Venezia era finito. Umiliato, povero, con il cuore a pezzi e senza altra compagnia che quella del suo corvo Leonardino, Matteo Colombo ritornò a Padova con una sola convinzione. Inés de Torremolinos Di ritorno a Padova lo attendevano due notizie: una buona e una cattiva. Quella cattiva si riferiva allo stato d'animo del decano. "Si dicono molte cose di voi a Padova", cominciò col dirgli Alessandro da Legnano. "E per la verità, nessuna buona". Il decano informò l'anatomista che Beatrice, la pupilla del postribolo della Taverna del Mulo, era stata condotta in giudizio e bruciata come strega. "Nella sua dichiarazione vi ha nominato", disse laconico il decano.

Matteo Colombo restò in silenzio. "Quanto a me", proseguì il decano, "vi condurrei davanti al Tribunale dell'Inquisizione oggi stesso", disse e poté notare che il suo interlocutore impallidiva, "tuttavia la fortuna sembra stare dalla vostra parte". Allora gli comunicò che un certo abate, parente dei Medici, aveva ordinato di chiamare l'anatomista a Firenze. Una dama di Castiglia - vedova di un nobile signore fiorentino, il marchese di Malagamba - stava agonizzando e un altissimo duca vicino ai Medici aveva contrattato i servigi dell'anatomista. Aveva pagato come anticipo mille fiorini e altri cinquecento ne pagherebbe nel caso avesse bisogno della collaborazione di un apprendista o di un aiutante. Il decano considerò una proposta giusta archiviare la faccenda di Beatrice e le testimonianze di Laverda e di Calandra, in cambio degli onorari offerti al suo cattedratico. "Partirete domani stesso per Firenze", concluse Alessandro da Legnano e, prima di congedare Matteo Colombo, aggiunse: "Quanto all'apprendista, con voi viaggerà Bertino. È già deciso".

A nulla sarebbe valso protestare. Matteo Colombo si limitò ad assentire; in verità il decano non gli lasciava nessun margine di negoziazione. Bertino si chiamava Alberto e portava lo stesso cognome del decano. Nessuno sapeva con esattezza che parentela li unisse. Ma Bertino era gli occhi e le orecchie di Alessandro da Legnano, un giovane un tantino più idiota del suo protettore, che, a Firenze, si sarebbe trasformato nell'ombra dell'anatomista. Inés era la maggiore delle figlie della nobile coppia formata da Don Rodrigo Torremolinos, conte di Urquijo e signore di Navarra, e Isabella d'Alba, duchessa di Cuernavaca e contessa di Urquijo. Con dispiacere del padre, la coppia non ebbe figli maschi. Così che, a causa della sua femminile "progenitura", la sua piccola altezza godeva pienamente della potestas e della divitia. Una simile genealogia e lignaggio, tuttavia, contrastavano con la sua precaria salute, con la pallida fragilità e con la sua minuscola e morbida figura. Come se quel corpicino fosse troppo piccolo e prematuro per ospitare un'anima, la bimba presentava un aspetto francamente esanime, non come se la vita la stesse per abbandonare, ma come se mai avesse alitato in lei. La culla dal fastoso baldacchino che era stata costruita per lei dal miglior ebanista di Castiglia era così grande che la piccola Inés diventava invisibile fra le pieghe della seta.

A malapena si notava un segno di vita in certi orribili lamenti che, sempre, sembravano dover essere gli ultimi. L'ebanista, non appena ebbe terminato la culla, cominciò a costruire il piccolo feretro. A mano a mano che si succedevano i giorni, la bambina perdeva volume, se così si poteva chiamare quella pura assenza. La nutrice, vedendo che la piccola Inés non aveva nemmeno la forza di aggrapparsi al capezzolo, l'aveva abbandonata definitivamente e, così sembrava, stava per ricevere l'ultimo sacramento prima di aver ricevuto il primo. Eppure, Dio sa come, la bimba sopravvisse. Poco a poco e come crescono dal nulla i teneri germogli su un ramo secco, la bambina andò guadagnando il codice dei vivi. A misura che la piccola Inés cresceva, nella stessa proporzione, ma inversamente, la fortuna famigliare illanguidiva. Gli olivi e le viti della casa che in altri tempi erano i più splendidi e generosi della penisola, e della cui abbondanza era testimone lo scudo famigliare, furono devastati dalla voracità di un'improvvisa epidemia che, da un giorno all'altro, fece seccare qualunque cosa presentasse una qualche volontà di rinverdire.

Don Rodrigo, rovinato, senza altri beni se non la sua sconsolatezza e i suoi titoli, malediceva il ventre della moglie che, come i campi infetti prodighi soltanto di inutili sterpaglie, era stato incapace di fare un figlio maschio del suo sangue in grado, almeno, di portare a casa una dote. Era provato che l'unica cosa che riuscisse a generare la duchessa erano bimbe squallide. Disperato, Rodrigo andò a Firenze a chiedere aiuto al cugino, il marchese di Malagamba, a cui, oltre alla parentela, lo univa, in altri tempi, la coltivazione dell'olivo. Il nobile spagnolo implorò, pregò e perfino pianse. Il marchese si mostrò un uomo dabbene, proclive alla comprensione e alla misericordia. Gli offrì consolazione, parole di coraggio e di fede; quanto al denaro, neanche un fiorino. Don Rodrigo tornò in Castiglia sconsolato. Eppure, l'estate seguente giunse un messaggero a casa del contrariato nobile castigliano. Recava un messaggio del marchese.

Con sorpresa del conte, il fiorentino chiedeva la mano di sua figlia Inés e, in cambio, offriva a Don Rodrigo la somma di denaro che gli aveva chiesto l'anno passato. La proposta aveva una ragione: il marchese, vedovo, non aveva avuto discendenza, e dunque necessitava di un mezzo per ottenere un maschio legittimo, in altre parole, di una donna. D'altra parte, l'unione con il casato di Castiglia lo beneficiava in quanto, in questo modo, estendeva i suoi domini fino alla penisola iberica. Il messaggero partì alla volta di Firenze con l'assenso di Don Rodrigo. Inés, a quell'epoca, aveva appena tredici anni. Non vi fu corteggiamento né seduzione, non esistettero lettere amorose né regali, oltre a quello costituito, secondo i suoi genitori, dalla stessa Inés, la quale fu inviata a Firenze, dove l'aspettava il suo sposo, con una scorta formata da membri di entrambi i casati. Inés si sposò vergine e virtuosa.

Il marchese era della nobile razza di Carlomagno e l'impressione che si fece Inés di suo marito la prima volta che lo vide fu che il fiorentino portasse nella sua umanità il volume di tutti i suoi illustri antenati e l'età di tutte le insigni generazioni carolinge. Non immaginava che suo marito fosse un uomo vecchio e obeso, ma neanche il contrario. Inés fu una buona sposa che offrì a suo marito tutta la sua virtus in conjugio; sapeva esibire le nobili origini e, soprattutto la "casta", cioè, la cristiana castità coniugale. Se la sposa, secondo quanto prescriveva il precetto apostolico, doveva spogliarsi di passione e "usare il marito come se non lo avesse", a Inés sicuramente non risultò difficile farlo; in effetti, entrava a stento nel letto nuziale accanto al suo enorme sposo. Non doveva frenare accessi di passione né basse umidità. Non sentiva la minima attrazione per suo marito e, per la verità, verso nessun uomo. Si sarebbe detto che Inés non avesse mai sentito la minima inclinazione verso la sensualità. Niente le provocava piacere e, neanche, ripugnanza. Non sapeva nulla di gemiti e lamenti né di pulsioni notturne. Per tutto il tempo del suo matrimonio, il marchese aveva avuto tre erezioni senili, tre volte si congiunsero e tre volte partorì la povera Inés senza sapere mai che cosa fosse la frenesia veneris.

Come se una maledizione si fosse abbattuta sulla famiglia, proprio come sua madre, non ebbe maschi; furono tutte femmine; foglie secche per il malconcio albero genealogico carolingio. Una quarta erezione sarebbe stata un miracolo; ragion per cui stanco, indignato e scoraggiato, il marchese decise di morire. E così fece. Inés era una donna molto giovane. Si dedicava completamente ad allevare le sue tre colpe, non senza un qualche dispiacere per la memoria del suo defunto marito, non avendo potuto esaudire il di lui desiderio di formare un anello della sua nobile catena genealogica. Tutto il suo spirito si riversò sulla compassione, la misericordia, la carità e soprattutto su Dio. Nell'intimità della sua alcova, scriveva un'infinità di poesie in Sua lode.

Pregava. Ed era una delle donne più ricche di Firenze. Portava avanti la sua vedovanza senza altro dispiacere che quello di non aver potuto rispettare la santità coniugale, la cui unità di misura è la gloria rappresentata da un figlio maschio. Per il resto, non serviva altro amore che quello di Dio. Non si vedeva privata della consolazione di un uomo; non rimpiangeva dolci delizie e non era nemmeno invasa da oscuri e peccaminosi pensieri perché, in verità, non aveva mai conosciuto le prime ragion per cui non poteva immaginare i secondi. Tutti i beni che Inés aveva ereditato non erano sufficienti a lenire la pena di essere stata incapace di dare un maschio al suo defunto sposo. E dunque, per alleviare i dispiaceri e, soprattutto, per saldare la sua colpa in memoria del marito, decise di vendere gli oliveti, le viti e i castelli, e con questo denaro costruire un convento. Così, grazie a una esistenza di castità, avrebbe obbedito al dettame coniugale, servendo i figli che il suo ventre non aveva saputo generare: la comunità monastica e i poveri. E così fece. Sembrava che Inés procedesse senza ostacoli verso la santità, fino a che - è giusto dirlo ora - un uomo si interpose fra la sua vita diafana e la gloria eterna: Matteo Renaldo Colombo. Avrebbe potuto finire i suoi giorni come una vera santa. Fu d'estate che la sua salute si guastò a causa di una malattia sconosciuta. Si ritirò con le tre figlie in un'umile casa vicino al monastero da lei eretto e si decise ad aspettare la morte con cristiana rassegnazione.

Lo spirito di Inés era diventato via via sempre più oscuro e pessimista; si rinchiuse in un mondo oscuro e tormentato. Ogni avvenimento più o meno insolito o, perfino, banale e quotidiano, diventava per lei un segno dei più neri vaticini; se le campane dell'abbazia suonavano per un qualche motivo, non poteva liberarsi dell'idea che rintoccavano per la morte di una delle sue figlie. Temeva per la salute dell'abate - che, al contrario, era di ferro - e, insomma, per quella di tutti coloro che le stavano vicino. Un qualunque banale raffreddore rivelava, senza ombra di dubbio, una fatale polmonite con conseguenze immediate e fatali. Con il tempo, tutti questi timori si ripiegarono sul suo spirito e sospettava di essere vittima delle più gravi malattie; una semplice irritazione della pelle era il sintomo che anticipava un'evoluzione in lebbra. Si sentiva incalzata dalla morte. Soffriva di interminabili insonnie durante il cui tenebroso corso il suo cuore pareva voler saltare fuori dal petto, soffriva di penosi soffocamenti che le davano la certezza di un'asfissia mortale ed era colta da improvvise crisi di sudore freddo. Nella solitudine del suo letto, immaginava come sarebbe stato il suo corpo dopo la morte e si tormentava all'idea della decomposizione della sua giovane umanità. Ben presto tutti questi angoscianti malesseri si andarono estendendo oltre la frontiera della notte, fino ad occupare completamente la sua vita. Poco a poco, a causa delle vertigini che sembravano far crollare il pavimento sotto i suoi piedi, Inés decise di rifugiarsi definitivamente nel suo letto in attesa di quel che Dio disponesse.

Ma non trovava tranquillità né consolazione nemmeno in Dio, cosa che contribuiva, ancora di più, ai suoi tormenti, perché proprio per questo metteva in crisi la sua devota coscienza e non poteva neppure più aspettare la morte con cristiana rassegnazione. Inés aveva proprio l'aspetto di chi entra in agonia. Vedendo che la salute di Inés peggiorava irrimediabilmente, l'abate si ricordò che a Padova un chirurgo aveva salvato miracolosamente la vita di un agonizzante, un fatto che, all'epoca, era stato molto commentato. Ragion per cui, senza esitare, intercedette presso il suo illustre cugino vicino ai Medici il quale, senza badare a spese, le fece avere mille fiorini per gli onorari dell'eminenza e altri cinquecento per il viaggio e altre eventualità che potessero occorrere. La scoperta L'impressione che Matteo Colombo si fece della malata fu, nell'immediato, che si trattava di una donna infinitamente bella e, in secondo luogo, che la sua non era una malattia frequente. Inés era distesa sul letto, esanime e incosciente. Esaminò gli occhi e la gola. Le palpò la testa e ispezionò le orecchie. L'abate seguiva i movimenti del medico con diffidente curiosità.

Le tastò le caviglie e i polsi e pregò l'abate di lasciarlo solo con l'ammalata insieme al suo "discepolo" Bertino. Seppure con qualche preoccupazione, l'abate abbandonò la stanza. Matteo Colombo pregò Bertino di aiutarlo a svestire la paziente. Forse nessuno avrebbe potuto sospettare che sotto quegli austeri indumenti esistesse una donna di una bellezza straordinaria, come testimoniavano le mani del discepolo, che tremavano come foglie a ogni indumento tolto. "Non hai mai visto una donna nuda?" chiese Matteo Colombo a Bertino con qualche malizia, facendogli notare così che poteva trasformarsi nel delatore della spia del decano.

"Sì, l'ho vista... ma non da viva... " esitò Bertino. "Bene, ti ricordo che ciò che stai vedendo non è una donna, ma una malata", disse Matteo Colombo sottolineando nel pronunciare la differenza fra le due categorie. In verità, neanche Matteo Colombo aveva potuto sottrarsi alla bellezza della sua paziente, ma aveva il contegno di un esperto, riusciva a non manifestare alcun turbamento. E poi sapeva che un medico doveva far caso alle impressioni soggettive: intuiva che la sua inquietudine e il suo turbamento non erano estranei alla malattia dell'inferma. Esaminò il tono muscolare del ventre e il ritmo della respirazione. Poiché Bertino tardava nell'eseguire il suo compito, ordinò al discepolo di sbrigarsi una buona volta a togliere gli abiti all'inferma. Nel momento stesso in cui l'anatomista si accingeva a prendere il polso, Bertino proruppe in un grido di spavento. "È un uomo! È un uomo!" strillava mentre si faceva il segno della croce e invocava tutti i santi del cielo. "Il potere di Dio sia con me!" implorava con una smorfia di terrore. Matteo Colombo pensò che Bertino fosse diventato completamente pazzo. Il maestro si raddrizzò e cercò di calmare il suo discepolo, quando, con suo stupore, poté vedere, fra le gambe dell'inferma, una perfetta, eretta e minuscola verga. L'anatomista ingiunse al suo discepolo di smetterla di gridare. Certamente quella scoperta, qualunque cosa fosse, metteva in pericolo la vita - già abbastanza fragile - dell'inferma. Matteo Colombo si ricordò immediatamente di un caso che, cinquanta anni prima, aveva portato sul rogo un uomo che presentava l'aspetto di una donna e che, sfruttando le sue forme femminili, esercitava la prostituzione.

Eppure, Inés de Torremolinos presentava un'anatomia completamente femminile e, certamente, le sue tre figlie erano la testimonianza della sua altrettanto femminile fisiologia. Tuttavia, sotto il naso attonito del maestro e del suo discepolo, si ergeva quel piccolo organo davanti ai loro occhi sbalorditi sgranati come due paia di fiorini d'oro. L'ipotesi che meglio si adattava alla situazione era quella dell'ermafroditismo. Le antiche cronache dei medici arabi ed egiziani riferivano di numerosi casi di esseri che presentavano i due sessi nello stesso corpo. Anche l'anatomista aveva potuto constatare un caso di ermafroditismo in un cane. Tuttavia, neppure questa congiuntura collimava con i fatti: la caratteristica comune segnalata da tutte le cronache mediche non lasciava dubbi circa il fatto che una simile anomalia significava l'atrofia completa di entrambi gli organi sessuali, quello maschile e quello femminile, rendendo così impossibile la riproduzione. Oltre alle tre creature che Inés de Torremolinos aveva fatto venire al mondo, era evidente che quel piccolo organo non appariva per nulla atrofizzato; al contrario, era infiammato, palpitante e umido. Spinto dalla pura intuizione, l'anatomista prese fra il pollice e l'indice quella innominata parte e con l'indice dell'altra mano cominciò a sfregare dolcemente il minuscolo glande, rosso e infiammato.

La prima reazione che Matteo Colombo poté osservare fu che tutta la muscolatura del corpo dell'inferma - che fino a quel momento era stata completamente inerte - acquistò un'improvvisa e involontaria tensione mentre quell'organo cresceva un po' in grandezza e si dimenava in brevi contorsioni. "Si muove!" gridò Bertino. "Silenzio! O vuoi che se ne accorga l'abate?" Matteo Colombo continuava a sfregare fra le dita quella protuberanza, come chi sfrega uno sterpo contro una pietra per ottenere il fuoco. All'improvviso, come se finalmente fosse riuscito ad accendere la scintilla del fuoco, tutto il corpo di Inés si dimenò in una grande convulsione che le fece sollevare le natiche e restare appoggiata solo con le caviglie e la nuca, a somiglianza di un arco. Poco a poco la sua vita cominciò a muoversi, seguendo la regolarità, il ritmo delle dita dell'anatomista.

La respirazione di Inés si fece agitata; il cuore, si sarebbe detto, le galoppava nel petto e tutto il suo corpo brillò improvvisamente per una sudorazione generale, riproducendo, in virtù di quello sfregamento che le prodigava l'anatomista, ciascuno dei penosi sintomi che la spaventavano durante la notte. Eppure, nonostante Inés restasse incosciente, non sembrava che quella seduta le riuscisse, a onor del vero, penosa. La respirazione di Inés andò acquistando un suono soffocato che si trasformò in un ansimare sonoro. Il suo atteggiamento esanime si trasformò in una smorfia lasciva: la bocca, socchiusa, lasciava intravedere la lingua che si agitava fra le labbra. Bertino, il discepolo, si fece il segno della croce. Non riusciva a capire se quello fosse un esorcismo o se, al contrario, il suo maestro stesse mettendo il diavolo nel corpo di Inés.

Quasi svenne nel vedere che, all'improvviso, la malata aprì gli occhi, si guardò intorno e, completamente in sé, si abbandonò alla diabolica cerimonia dell'anatomista. I capezzoli di Inés si erano infiammati ed eretti e ora era proprio lei a toccarseli con le sue stesse dita senza smettere di guardare quello sconosciuto con lascivia, mentre biascicava delle parole incomprensibili in spagnolo. Sembrava proprio che Inés fosse passata dall'agonia alla frenesia veneris. Totalmente cosciente - se così si può dire - Inés afferrò la sbarra della testata del suo rozzo letto. Fra lamenti, convulsioni e "come osate" minacciosamente sospirati, Inés lasciava fare. "Come osate?" mormorava mentre passava la lingua sui capezzoli. "Sono una donna casta", diceva mentre si inumidiva le dita sulle labbra. "Come osate?" sospirava e allora spalancava le cosce il più possibile. "Sono madre di tre figlie", diceva senza smettere di accarezzarsi i capezzoli e "come osate", implorava e poi lasciava fare. Quello dell'anatomista non era un compito facile; da un lato doveva sottrarsi alla contagiosa eccitazione della malata e, dall'altro, evitare che quella stessa eccitazione scemasse. Inoltre Bertino - che continuava a segnarsi - non la smetteva di fare domande, esclamazioni e addirittura si permise di minacciare il suo maestro: "State commettendo un sacrilegio, profanazione!". "Vuoi chiudere quella bocca e tenerle le braccia ferme?".

Sconvolto come era, Bertino obbedì. "Non le mie, idiota, quelle dell'ammalata!". "Come osate?" sussurrava Inés. "Sono vedova", diceva e poi muoveva le cosce investendo le mani dell'anatomista. "Come osate?" piagnucolava. "Due uomini contro una povera donna indifesa", diceva e allora tendeva la mano verso la verga del discepolo, le cui suppliche a Dio non impedivano che cominciasse a avercelo un po' duro, cosa che, naturalmente, assicurava all'anatomista il silenzio di Bertino. "Come osate!" mormorava Inés. "Se non vi ho mai visto prima d'ora!". Matteo Colombo rimase dieci giorni a Firenze con la sua malata. Dieci giorni durante i quali Inés si ristabilì completamente, almeno dalle sue precedenti sofferenze. L'anatomista, d'accordo con l'abate, prese alloggio in una cella del monastero la cui vicinanza alla casa dell'inferma gli permetteva di non interrompere la sua segreta cura. Però Inés considerò che era un'imperdonabile mancanza di ospitalità e lo fece alloggiare in casa sua.

Gli preparò un'accogliente stanza accanto alla propria. Inés non era la donna lasciva che aveva conosciuto Matteo Colombo. Al contrario aveva l'aspetto di una santa; era estremamente pudica nel vestire, riservata nel suo fare e nel suo dire. Eppure, al momento di sottoporsi alle cure dell'anatomista, sembrava che dal suo corpo si facesse largo uno spirito diabolico illimitato che travolgeva la barriera del pudore e che si ritirava solo dopo che era arrivata all'estasi, dopo di che Inés ritornava alla sua modestia. L'inferma fingeva di ribellarsi al piacere attraverso dei leggerissimi "Come osate?" che però assomigliavano più a un gemito di godimento che a una lamentela. Finite le sedute non accennava a nessun particolare, come se non serbasse memoria di quanto era accaduto nell'alcova o come se non avesse più importanza che il prendere delle erbe medicinali. Con l'avanzare della cura, quella misteriosa protuberanza che presentava la forma di un vero e proprio pene andava rimpicciolendo proprio come le sofferenze dell'inferma.

Per il resto, Inés sembrava trovarsi a suo agio in compagnia di Matteo Colombo. Al mattino passeggiavano nel viale di bosso del bosco confinante con il monastero e intorno al mezzogiorno sedevano all'ombra di un rovere a mangiare fragole e more di bosco. A metà pomeriggio, Inés e l'anatomista rientravano a casa, si chiudevano in camera da letto e allora iniziava la cura. Inés si sdraiava docilmente sul letto, faceva scivolare le gonne lungo le cosce, allargava un poco le ginocchia mentre inarcava le spalle sollevando le natiche, dolci e sporgenti, e si offriva alle mani dell'anatomista chiudendo gli occhi e stringendo le labbra ancora umide e colorate dal succo delle more. E ogni mattina Matteo Colombo e la sua paziente uscivano a passeggiare nel bosco confinante con l'abbazia e dopo mezzogiorno entravano a casa e "come osate, anche se non porto l'abito sono una donna consacrata". E ogni sera, dopo una cena frugale e tranquilla, "come osate, ho giurato sulla memoria del mio defunto di osservare castità e celibato". Matteo Colombo, da parte sua, stava bene a Firenze. Il motivo del soggiorno di Matteo Colombo non era solamente quello di vegliare sulla salute della sua paziente; cosa era quel piccolo organo innominato che si comportava proprio come un sesso maschile? Che cos'era quella minuscola mostruosità che si affacciava orribilmente dal pube femminile di Inés? Inés era una donna? Si trovava di fronte a una mostruosità della natura o, come sospettava, alla più incredibile scoperta della misteriosa anatomia femminile?

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A metempró... e sti cazzi, na roba piú lunga da legge' 'nce stava?...
Cmq interessante la scelta del tuo nick, sottile... sei un amante della cultura classica

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Di piu' lungo c'è il romanzo di cui ho pubblicato la recensione, un po' di letteratura sulla gnocca mancava. Confermo di essere un amante del classico , stile antica Roma!

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