Andiamo

PERLE DEL DESERTO

Da Midès, ultima oasi del Basso Atlante tunisino quasi sul confine con l’Algeria, a Sfax corrono 300 km di strada diritta ma non noiosa. Dopo una decina di tornanti disegnati lungo canyon color ocra tra cui fanno capolino ciuffi di palme da dattero, il viaggiatore viene preso in carico da una desolata pianura sabbiosa percorsa da un nastro d’asfalto che sfuma all’orizzonte in un tremolante riflesso rossastro avvampato dal calore. Qualche arbusto spontaneo punteggia brulli rlievi fino a Redeyef, principale centro di estrazione di fosfati; poi il paesaggio cambia. Non che all’improvviso appaiano foreste intrise di fiumi spumeggianti nelle cui acque guizzano salmoni, ma, poco a poco, la presenza umana si fa più frequente; sparuti insediamenti di casupole appena abbozzate si materializzano dal nulla a una certa distanza dalla strada, quindi si attraversano i primi spogli agglomerati urbani che tra mezzogiorno e l’una vengono destati dal loro torpore dall’allegro sciamare della giovane popolazione scolastica al termine delle lezioni. AI lati della strada si formano capannelli di tre/quattro adolescenti rigorosamente separati tra maschi e femmine che cercano un passaggio per raggiungere le rispettive abitazioni sparse per il circondario. I ragazzi sono più intraprendenti nel cercare di fermare i veicoli di passaggio; addirittura, alcuni, vedendomi sopraggiungere in moto, si piazzavano sulla mia traiettoria salvo poi arretrare con un balzo quando ormai ero arrivato a pochi metri. Io procedevo lentamente, divertito da questa pantomima, ed ero certo che se mi fossi fermato, avrebbero fatto a botte per assicurarsi il posto dietro di me. Con le ragazze, tutt’altra storia: come vedevano la moto, le loro braccia protese nel gesto dell’autostop si ritiravano immediatamente. Ma non sempre. Alla periferia di un villaggio di cui non dirò il nome, tre esili figure più grandicelle delle altre, mantennero, pur con qualche esitazione, le braccia tese in avanti oscillanti in su e in giù nella richiesta di uno strappo.
Decisi di vedere il bluff e mi fermai. Indossavo una giacca da moto e il casco integrale; questo per dire che la mia figura si presenta priva di connotazioni di genere evidenti. Ciò nonostante le ragazze arretrarono come spaventate dal loro stesso ardire. E ora? Avevano ottenuto che il biker si fermasse e non potevano più tirarsi indietro. Sollevai la visiera e sorrisi: “j'aimerais vous faire monter toutes les trois» dissi con voce tranquillizzante, «mais il n'y a de la place que pour une personne », e, continuando sempre in francese « scegliete voi a chi tocca… ». Tentarono di sottrarsi alla difficile decisione, ma avrebbero perso la faccia; sicchè, dopo un breve coniciliabolo, la più ardita del terzetto si fece coraggio e mi chiese se potevo accompagnarla a un villaggio una ventina di km più avanti.
Mentre mi parlava la osservai meglio, infagottata, come le sue amiche, nella lunga veste delle donne di campagna tunisine : lineamenti regolari, occhi da gazzella, colorito ambrato interrotto da fugaci visioni di denti bianchissimi ; età poco più di 20 anni, un po’ tanti per una scolaretta. «Êtes-vous étudiants»? chiesi. Si schermì con un’espressione tra il divertito e l’offeso : « mais non, nous on est des professeurs ». Meglio così, l’eventualità di un equivoco se la polizia mi avesse fermato a scarozzare un minorenne e senza casco era scongiurata. Si accomodò dietro di me, rigorosamente « all’amazzone », cioè non a cavalcioni, posizione peraltro impedita dal suo abbigliaento, bensì seduta di traverso con le gambe unite rivolte a sinistra. Mi assicurai che fosse ben ancorata con le mani alle maniglie ai lati della sella e partii graduando la progressione in modo da evitare strappi e scossoni. Appena fuori dell’abitato, sentii la sua mano destra posarsi sul mio fianco come alla ricerca di una posizione più comoda, trovò la cintura del mio giaccone e vi si aggrappò. Procedemmo così per un po’ nella calura estiva del sud tunisino, accompagnati dal brontolio regolare del motore, dal fruscio del vento e dalle vibrazioni del bicilindrico. Avremmo percorso sì e no una decina di km, quando cominciai ad avvertire alle mie spalle tutta una serie di piccoli movimenti sussultori, si spasmi trattenuti, di lievi contrazioni del suo corpo contro il mio, mentre la sua mano destra artigliava convulsamente e sempre più a fondo il mio giaccone. Al momento non compresi, pensai si sentisse male e rallentai, ma, attraverso il casco, mi giunse la sua voce rotta e ansimante : «allez, allez, plus vite…». Diedi gas, e mentre mi arrovellavo su che cosa stesse accadendo, mi sentii improvvisamente pervadere da una irresistibile foia animalesca ; la mia «pelle», ancora prima che il mio cervello elaborasse un quadro delle stuazione, si era sintonizzata sulla «pelle » di lei e le due comunicavano tra loro, totalmente a nostra insauta, secondo un loro misteroso codice alchemico.

A questo punto mi fu tutto chiaro : complici le vibrazioni della moto, l’eccitazione di trovarsi, forse per la prima volta, a stretto contatto con un corpo maschile, l’intimità che si viene a creare con uno sconosciuto senza volto, che non si incontrerà mai più, in una landa desertica senza testimoni, il suo esile corpicino era stato squassato da un potente orgasmo e ora si stava acquietando negli ultimi sussulti di assestamento completamente abbandonata sulla mia schiena.
Ancora pochi km e una lieve pressione sulla spalla mi destò dall’estasi nella quale mi trovavo annichilito; la mia passeggera era arrivata a destinazione; accostai in prossimità di un viottolo sabbioso che conduceva a un gruppo di case. Lei si lasciò scivolare giù dalla sella e corse via senza voltarsi. Si era levato il vento e io rimasi a guardarla mentre la sua figurina sfumava in distanza avvolta dentro aerei mulinelli di sabbia. Proseguii il mio viaggio ancora inebriato da quella specie di trance. Mano a mano che mi avvicinavo alla costa le coltivazioni prendevano sempre più il posto delle riarse distese giallastre dell’interno; i centri agricoli di Ali Ben Khalifa e di Agareb erano trafficati da pick up che trasportavano al lavoro giovanissime braccianti del tutto irriconoscibili sotto gli stracci che le ricoprivano da capo a piedi. Probabilmente profughe sub-sahariane adibite ai lavori dei campi in attesa del sospirato imbarco.
Mi fermai alla pompa di benzina poco prima di Riyad a fare il pieno e a sgranchirmi le gambe, fu allora che mi accorsi di un’ampia chiazza trasparente come di smalto che ricopriva la parte posteriore della sella, era una patina lucida di un fluido viscoso asciugatosi al sole. Lo sfregai appena con un dito e dopo averlo annusato lo portai alla lingua. Rimasi immobile con un sorriso complice disegnato sul volto: la ragazza mi aveva lasciato in dono il pegno essicato del suo piacere.

Non è per fare sesso che si paga una donna, ma perché, poi, sparisca senza ulteriori pretese.

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Che storia. Chi gira il mondo vive situazioni incredibili

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...e poi venne la marmotta a fare il cioccolato. Ma per favore...

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